PER UNA FIGURATIVITÀ DELLE TECNICHE tre paradigmi della costruzione a secco
La relazione tra l’architettura e la sua costruzione, nell’arco del XX secolo fino al presente, trova una invariante saliente nella ‘costruzione a secco’ [1], caratterizzata da almeno tre paradigmi che hanno modificato via via i modi di produrre e costruire, ma ancor prima quelli di pensare e progettare gli edifici.
Tali paradigmi costituiscono i termini tassonomici di una filogenesi del binomio architettura/costruzione, dalle prime sperimentazioni dei Maestri, fino a un presente guidato dalle cogenze normative in materia di sostenibilità ambientale e risparmio energetico.
Il primo paradigma della costruzione a secco, coincide con l’opera Jean Prouvé [2], e consiste nella (s)composizione/costruzione industrializzata del manufatto architettonico.
Prouvè, prima del secondo conflitto mondiale e nel dopoguerra (tra gli anni ’30 e fino agli anni ’50 del secolo scorso), coniuga ricerca sulla prefabbricazione in acciaio e alluminio e residenze a basso costo, inventando una forma di composizione modulare fondata su ‘idee costruttive’ [3], per realizzare edifici in carpenteria leggera per componenti preordinati in officina, montati come un grande meccano, a secco, in cantiere. Una figuratività delle tecniche, dedotta dai materiali e dai modi di produzione e assemblaggio (macchine pressopiegatrici, saldatrici; collegamenti bullonati e incastri;nodi e giunti) tra componenti dell’edificio, che cambia totalmente il modo di progettare, istituendo nuove relazioni tra progetto e costruzione (tra progettista e costruttore), tra prodotto (componente) edilizio e industria.
Ricerca, trasferimento tecnologico, espressione architettonica, si fondono in una concezione etica della forma, applicata all’abitazione di massa, in cui termini come produzione in serie (ogni edificio è concepito come prototipo ripetibile), flessibilità d’uso, trasformabilità (senza demolizione),smontabilità/reversibilità, vengono associati per la prima volta all’architettura.
Il secondo paradigma della costruzione a secco, consiste nello sviluppo dell’assemblaggio come composizione e del componente come oggetto di design.
Si manifesta tra gli anni ’70 e ’80 del XX secolo, e vede architetti quali Foster, Rogers, Grimshaw, Piano, agire soprattutto su ‘oggetti singolari’ [4], anche grazie alla collaborazione di straordinari ingegneri come Peter Rice [5]. Un’architettura del vetro e dell’acciaio, fondata su una concezione analitica della forma dove la struttura statica appare totalmente estroflessa. Tratto saliente, la separazione visiva e funzionale delle parti, manifesta e comunicabile: la struttura primaria, secondaria e terziaria; l’elemento portante e quello portato; l’elemento teso e quello compresso; il giunto [6];tutti i componenti della costruzione rivestono valore formale.
Un paradigma che si è via via servito del computer, non solo per disegnare / generare, ma per determinare nuove relazioni tra la forma architettonica e la sua produzione [7] (mass customisation, cnc, f2f, ecc.) e tra la forma architettonica e il calcolo integrato delle sue prestazioni (strutturali, energetiche, illuminotecniche, ecc.).
Nel presente, la coscienza del risparmio energetico e della sostenibilità ambientale, resi cogenti da un nuovo assetto della normativa tecnica europea (direttiva 2010/31/UE sugli edifici a energia quasi zero), unitamente alla crisi economica globale, hanno condotto ad un nuovo paradigma della costruzione a secco, caratterizzato dall’introflessione delle componenti (figure) della statica e della costruzione, accompagnata dall’epifania architettonica dei dispositivi di produzione dell’energia.
La nuova domanda di progetto in atto (non solo per gli ‘oggetti singolari’) chiede manufatti ‘passivi’ o a ‘energia quasi zero’: forme che il sistema S/R Struttura/Rivestimento) risolve per mezzo di apparecchi murari articolati in struttura, involucro esterno e interno; involucri composti a loro volta da ‘strati’ di materiali, assemblati meccanicamente (a secco), di origine naturale o di sintesi, caratterizzati da prestazioni sempre maggiori e da costi relativamente contenuti, disponibili correntemente sul mercato, totalmente articolabili in funzione delle caratteristiche prestazionali di cui s’intende dotare l’edificio.
Questo nuovo paradigma vede l’impiego dell’acciaio e del legno, grazie alle loro peculiari qualità (riciclabilità, reversibilità, ecc.), premiate dai protocolli di sostenibilità ambientale (es.: Protocollo ITACA).
Per concludere. Tra Mito e (nuove) Necessità, spetta ancora agli architetti promuovere una linea, culturale prima che tecnica, in grado di trasformare il soverchiante numero di vincoli imposti dai bisogni del presente, in risorsa per una nuova architettura; condurre a una figuratività diffusa contemporanea anche i manufatti ordinari, modello di un passaggio epocale: adottando una mediocritas architettonica che assume quali ‘oggetti a reazione figurativa’ i dispositivi per la produzione e il risparmio energetico (unità solari termiche, unità fotovoltaiche, camini solari, ecc.) o quelli per il controllo solare (brise-soleil, ecc.) anche quando appaiono inerti ready – made – objects nei cataloghi dei produttori. Nella consapevolezza che la prestazionalità dei manufatti (l’indice di compattezza S/V, la trasmittanza, la conduttività acustica, ecc.), anche degli strati più esterni, quelli che interagiscono (energeticamente, ma anche figurativamente) con l’ambiente circostante, va ricondotta all’interno del progetto come una tra le variabili che l’architettura deve governare per forma.
[1] Sulla costruzione a secco si vedano M. Imperadori, La costruzione stratificata a secco, Modulo, n° 273/2001, Milano 2001; M. Imperadori, La meccanica dell’architettura, Milano 2010; Materia n°37/2002; Arketipo 3/2010.
[2] Cfr. D. De Nardi, Jean Prouvé. Idee Costruttive, Torino 2001.
[3] Sulla composizione modulare in Prouvè di veda in particolare, D. De Nardi, Jean Prouvé. Composizione è costruzione, in Costruire 267/2007.
[4] La dizione è ripresa dal dialogo tra Jean Nouvel e Jean Boudrillard, Architettura e nulla. Oggetti singolari, Milano 2003.
[5] Maurizio Cagnoni, Peter Rice e l’innovazione tecnica, Bari 1996. Si veda anche D. De Nardi Peter Rice l’ingegnere brutalista, in AAA 15/2003.
[6] Mi riferisco in particolar modo alla ‘gerberette’ del Beaubourg, al ‘bullone articolato’ delle Serre della Villette, ed al ‘capitello’ dei Lloyd’s.
[7] Sulle relazioni tra architettura e processo di produzione si veda in particolare Chis Abel, Architecture, technology and process, Boston 2004.
di Diego De Nardi
[pubblicato in Acciaio Arte Architettura 57/2014]